02 gennaio 2011

INDICE



La Porta dell'Eternità 


Angelo del 13


I Sogni


Il Sole del Sud America


Iguasù e la Croce


Territorio Sacro




18 dicembre 2010

Territorio Sacro - III

    Fino ad allora eravamo andate sempre d’accordo. Quando lei voleva prendere una decisione per me glielo permettevo. Non nego che in qualche momento provai a convincermi a credere che quell'angelo del quadro fosse Soledad che mi conduceva verso la luce. D’altra parte sentivo dentro di me una voce che ripeteva di no. Non ammetevo di basare tutta la ragione della mia esistenza su una visione incompleta e scipita. Considerare Soledad come una guida spirituale sicuramente mi avrebbe lasciato sentire più libera e rassicurata, però mi veniva con insistenza in mente il dubbio se sarei rimasta per sempre una schiava. Leggevo attentamente la sceneggiatura che aveva scritto Soledad. Se non fossi riuscita a comprenderlo adesso, si sarebbe allontanata da me e non sarebbe ritornata più. Non volevo lasciarla andare.
    Arrivò il momento di incontrarmi faccia a faccia con Soledad e parlare seriamente con lei. Era l’alba del giorno di Tanabata, chiusi gli occhi in silenzio e aspettai che venisse Soledad a visitarmi. Subito dopo, nel buio, cominciarono ad apparire degli affreschi sul soffitto di una chiesa. Il mio corpo fluttuava nell’aria. Con un pennello in mano, spostandomi di qua e là, ci dipingevo minuziosamente gli avvenimenti della mia vita. In quel momento sentii accostarsi qualcuno al mio fianco. Sicuramente era Soledad. Le circostanze in cui ci trovavamo erano tali e quali a quelle del dipinto del Palazzo Moreno. Sarei accompagnata da lei finché non finisca la pittura da sola. In quel momento mi resi conto che non avevo più il pennello in mano. Mi domandavo se l'avessi perso. Immediatamente mi girai verso Soledad.
    “Devi stare tranquilla. Te l'avevo già detto prima. Non c’è niente di cui preoccuparti.”
    Improvvisamente apparvero diversi cacciabombardieri in formazione e uno sganciò una bomba su di me. Nel momento in cui pensai di stare per morire, la bomba si trasformò in una grande sfera di luce e mi avvolse completamente. In un istante o in un’ eternità, qualcosa d’ignoto addentrò nel mio corpo e il suo peso cominciò a trascinarmi giù piano piano. Non so quanto tempo trascorse però quando sentii che tutto era immobile e in equilibrio provai ad aprire gli occhi. Allora mi trovai in un serbatoio d’acqua profondo e in penombra.
    "Dove è Soledad?"
    Non vedevo traccia della sua presenza. Levando gli occhi in su si vedeva una sfera celeste e in basso nel fondo, la mia ombra. Quando mi muovevo, l’ombra pure si muoveva allo stesso modo. Per un momento la guardavo fluttuando nell’acqua, però era strano: l’ombra si allargava lentamente.  Mi resi conto che si stava avvicinando verso di me e cominciò a prendere colore. Mano mano che si dilatava, apparivano innumerabili colori caleidoscopici che si diffondevano in tutta la sfera trasformandosi in tutti i disegni irregolari. Provai un attimo a muovere la mano come se avessi un pennello. I disegni si trasformarono secondo il movimento che io descrivevo.
    Quando mi risvegliai mi trovai a terra bagnata fradicia. Non capii che mi fosse successo per un po’ di tempo. Chiusi gli occhi e mi ricordai della sfera, della sua inesprimibile brillantezza dei colori. Sarà quella sfera ciò che Soledad mi avrebbe voluto far vedere? La mia vita che avrei dipinto con lei fluttuando nell’aria in chiesa si sarebbe evoluta fino a quel punto?

    Come tutte le estati decidemmo di passare le vacanze a Sirolo. Prima di partire andai in gioielleria per vedere se la croce con la rodocrosite fosse già stata riparata.
    “Mi dispiace, non riusciremo a ripararla prima che tu parta. Abbiamo cercato di incollare la pietra alla croce con un prodotto speciale, però si staccava sempre. Allora stiamo cercando qualche altra maniera per fissarla.”
    La signora della gioielleria continuò:
    “Guardando quella croce, mi è venuta voglia di andare a vedere l’immagine di Maria che era apparsa a Salta. Vorrei allontanarmi un po’ da Buenos Aires.”
    Decisi di lasciarle la croce.
    Ritornai in quella bellissima città sull’Adriatico. Mi sembrava fosse stato ieri quel giorno della grande nevicata. Tutto era uguale a prima: Monte Conero, la chiesa di San Nicola di Bari, nulla era cambiato, forse nemmeno io. Contemplando la vastità del cielo e del mare, ascoltai “Il clavicembalo ben temperato” di Bach che il maestro aveva registrato a Parigi. Quel tono neutrale liberò completamente la mia mente portandomi al di là dell’orizzonte. I suoni che le tastiere emettevano si convertirono, uno a uno, in piccoli corpi luminosi e cominciarono a fluttuare nell’aria. Svolazzarono tutt’intorno come se fossero vivi: si raggruppavano e si disperdevano continuamente. Ripetuto varie volte il processo cambiando di forma, penetrarono dentro di me e cominciarono a illuminare tutti gli angoli del mio io interiore.
    Il colore del cielo tinto dal sole del crepuscolo si sciolse nel mare come colori ad acqua. La linea dell’orizzonte scomparve e cominciarono ad apparire qua e là le stelle di color acquamarina trasparente.





Territorio Sacro - II

    La Big Band dava un concerto ogni fine settimana al Palazzo Moreno ed era previsto questo programma ancora per qualche tempo. Il produttore mi avrebbe lasciato entrare se avessi voluto sentire nuovamente. Approfittai delle sue parole e decisi di andare un’altra volta. Durante il tempo d’attesa, come l'altra volta, seguivo la musica del duo con una coppa di vino in mano. Si avvicinò l’ora dello spettacolo e gli spettatori che aspettavano nel salone cominciarono a dirigersi verso la scala a chiocciola situata in fondo. La sua spirale era ampia e arrivava fino al secondo piano. Attraversai la sala e cominciai a salire la scala. Appena girato per metà, potei vedere la parete sul lato destro. Dal bar non era possibile a causa di una grossa colonna. Comunque non si vedeva molto bene nell’oscurità. Feci un altro giro e vidi con attenzione la parete. Non potevo credere ai miei occhi e mi domandavo se non fosse qualche equivoco. Era il disegno che cercai sempre da tre anni. Il giorno di Tanabata, mentre ascoltavo il sonetto di Petrarca n.104, mi apparve un’immagine nella mente come se fosse un flash. Non era un’impressione sbagliata. Ero convinta che la pittura presente davanti ai miei occhi era tale quale a quell’immagine; una donna in una tunica bianca stendeva la mano ad un angelo che scendeva dal cielo per salvarla. Scesi dalla scala quella volta e mi avvicinai al dipinto. In una grande parete di colore rosa pallido il quadro era dipinto solo con diverse tonalità di grigi chiaroscurale; sembrava un lavoro recente però non c'era nessun informazione sull’opera.
    Incontrai finalmente quell’immagine. Commossa e rimasi lì in piedi senza parole. Mentre salivo alla hall del concerto sentivo ancora una sensazione strana come se stessi sognando; l’esecuzione della Big Band, dopo tutto quell’avvenimento, mi sembrava un attimo. Quella notte il mio amico e sua moglie con tutta la famiglia vennero ad ascoltare il concerto. La famiglia occupava un tavolo rotondo, al mio lato c’erano i produttori; solo quella notte aveva partecipato il sassofonista che aveva suonato alla festa di compleanno allo yacht club. Non sembrava minimamente che ci fosse una relazione tra di loro alla festa però si riunirono di nuovo al Palazzo Moreno per qualche motivo, oppure per combinazione, per ricostruire la stessa circostanza.
    Dopo il concerto andai a chiedere al proprietario del Palazzo informazioni sull’autore dell’opera. Mi raccontò’:
    “Quando hanno deciso il programma degli spettacoli della Big Band, hanno cominciato urgentemente a ristrutturare l'interno del palazzo. Si tratta di poco fa. Molti personali e disegnatori frequentavano l’edificio. La parete dietro la scala a chiocciola, siccome non era utilizzabile per esposizioni, hanno deciso di pitturarla. E’ venuta una pittrice ad eseguire quel lavoro."
    A dire la verità avevo già visto una pittura simile a quell’immagine nella chiesa di San Nicola di Bari a Sirolo; era l'immagine di Santa Lucia che inseguiva la luce. Però non volevo ammettere che fosse quello il quadro che stavo cercando. Mi misi seduta davanti a quella pittura e cominciai a riflettere su Soledad. Era il 13 di dicembre 2001 quando vivevo ancora a Sirolo, Soledad apparve dentro di me. Da quel giorno la mia vita cominciò a cambiare. Numerosi incontri casuali, avvenimenti strani e sogni premonitori; tutto ciò mi sembrava di essere stato  progettato ingegnosamente da qualcuno per farmi capire qualcosa d’importante. Mi ero convinta che seguendo la musica come il filo conduttore sarei riuscita ad ottenere la risposta. Chissà se era stata Soledad a farmelo credere per poi tramare e scrivere una sceneggiatura sotto il chiaro di luna allo yacht club. Mi ricordai della strana sensazione che avevo provato durante la festa. Alla fine, eccomi al Palazzo Moreno come aveva previsto Soledad.
    Pensavo a come potesse succedere una cosa del genere. Soledad si trovava in un posto totalmente chiuso e isolato dal mondo esterno; circondato da grosse pareti. La sua mente era bloccata e cercava una via di fuga. Quando incontrò la coppia di appassionati di jazz la mente si sciolse e da lì cominciò a fluttuare e ad   espandersi più liberamente. Prima era solamente una vaga proiezione come un’ombra leggera sulla parete, poi cominciò a formare figure e profili finché non apparì realmente in forma concreta. Ero sicura che per Soledad un miraggio non bastasse; aveva bisogno di manifestare un certo meccanismo con un sistema più sicuro. Cominciai a pensare che ci fosse un proposito speciale dato che la coscienza di Soledad era concentrata in qualcosa di più preciso.

17 dicembre 2010

Territorio Sacro - I

   
    Un giorno un mio amico organizzò una festa di compleanno allo yacht club nella periferia di Buenos Aires. Dall’ingresso principale fino alla sala della festa c’era qualche chilometro e la strada era tutta buia in mezzo al bosco. Si poteva solo distinguere al chiaro di luna che c’erano delle barche a vela sul fiume. La sala era stata costruita sull’acqua; non flottava né rullava però avevo la sensazione di essere dentro la barca. Alla porta della sala il mio amico e sua moglie accoglievano gentilmente gli invitati. Durante la festa c'era anche un concerto di jazz. Il sassofonista era la stessa persona che aveva suonato la notte precedente a Notorious dove ero andata a sentire. Era una coincidenza abbastanza insolita. Condividevo la tavola con una coppia di appassionati di jazz e facevo una vivace conversazione con loro.
    Man mano che passava il tempo, cominciai ad avere una sensazione strana. Mi sembrava che la mia coscienza si stesse allontanando piano piano dal corpo, come quando la temperatura corporea si diffonde nell’aria. Non riuscivo più a controllarmi. Cercai di difendermi da quella strana sensazione e creare una barriera tra me e la realtà che mi circondava. Sentivo una stanchezza enorme. Il mio amico guardandomi preoccupato mi chiese:
    “Che cosa ti è successo? C'è qualcosa che non va?”
    Non volevo mostrare ciò che mi stava succedendo e cercai di comportarmi il più possibile in maniera naturale, così gli risposi:
    “Va tutto bene.”
    “Il tuo viso sta dicendo il contrario.”
    In quel momento non capivo ancora da cosa dipendesse tutto questo.

    Cominciato il mese di giugno Buenos Aires assunse un aspetto invernale. Tutti gli alberi persero il verde e non c’era nessuno nei parchi. Il grande freddo, che durò comunque poco, arrivò nel mese di agosto. L’inverno di Buenos Aires era relativamente mite. Uno di quei giorni ricevetti un invito per il concerto di jazz della Big Band al Palazzo Moreno e facevano pubblicità con dei cartelloni che sono stati appesi dappertutto in città a tal punto che mi incuriosirono.
    Il Palazzo Moreno si trovava nel quartiere di San Telmo, la zona vecchia della città. Davanti all’edificio era appeso una specie di telone per gli spettacoli. Entrai e comprai il biglietto; per starmene tranquilla da sola, scelsi un tavolo vicino alla parete. La decorazione interna dava l'impressione di un vecchio museo europeo piuttosto che di una sala da teatro; mostrai il ticket all’ingresso e andando verso il fondo del corridoio, notai che al lato destro, c’era un grande salone con una decorazione rococò.  Poi arrivai ad una sala da esposizione dove erano appesi diversi quadri sulla parete. Allo stesso tempo c’era una mostra nel palazzo. Prima dello spettacolo, mentre aspettavamo nel salone, ci offrirono un aperitivo durante l’esecuzione di musica leggera con pianoforte e basso. Presi una sedia e mi sedetti al bar. In quel momento qualcuno mi chiamò per nome. Girandomi trovai quella coppia di appassionati di jazz che avevo conosciuto alla festa di compleanno allo yacht club. Era tanto tempo che non ci vedevamo più. Salimmo insieme al secondo piano e mi invitarono a condividere il loro tavolo al centro della prima fila. Subito dopo ci servirono una bottiglia di champagne. La hall principale era molto ampia con il soffitto alto e c’erano vari tavoli rotondi. Potrebbero assistere più di quattrocento persone in quel salone.
    “Siamo noi i produttori della Big Band.” 
     Fu una sorpresa per me, non avrei mai pensato che fossero stati loro ad organizzare questi concerti. Lo show era accompagnato dalle chiacchiere divertenti del conduttore della banda. Il concerto durava un’ora e mezzo senza intervallo però l'attenzione era sempre alta fin dall’inizio. Infatti gli spettatori erano completamente immersi nella loro interpretazione e non si distraerono mai. Oltre quest’abile intrattenimento, si potevano ascoltare numerosi altri musicisti conosciuti a Buenos Aires: questo era uno dei motivi per il quale gli spettatori erano rimasti affascinati. Finito il concerto tutti, tranne i personali del locale, si ritirarono. La sala era quasi buia, c’era solo qualche candela accesa qua e là e regnava un silenzio di tomba. In quell’ ambiente cominciai a sentirmi come se una parte della mia testa fosse  sottoposta ad un’anestesia. Mentre parlavo con i produttori avevo la sensazione che tutte le mie parole uscissero dalla mia bocca passando da qualche parte dove non riuscivo a controllare la mia coscienza e la mia ragione, mi sfuggivano una dopo l’altra infrenabilmente. Avevo una vaga sensazione che fosse stata Soledad ad occupare la mia coscienza in quel momento.

14 dicembre 2010

Iguasù e la Croce - V


  La prima volta che ascoltai la musica del gruppo “Argentos” fu in un club di jazz che si trovava nella zona di Palermo. Quando lessi un articolo su quel gruppo sul giornale mi venne la voglia di ascoltare la sua musica. Gli Argentos davano un concerto dal vivo nel club ogni mercoledì e decisi di frenquentarlo. Una notte colsi l’occasione per parlare con il leader del gruppo e gli dissi;
    “Finora ho ascoltato vari gruppi però sento negli Argentos qualcosa di diverso dagli altri.”       
    Allora cominciò a raccontarmi delle sue nuove creazioni che erano basate sulla musica di Bach.  La sua visione della musica era molto interessante ed io gli facevo delle domande a proposito. Alla fine mi convinse che la sua arte aveva subito un parto vero con una certa sofferenza. Tempo fa fece un sogno strano. In un museo scuro e senza nessuno erano messe ben allineate migliaia di placche d’oro con iscrizioni di decaloghi. Sotto quelle placche si nascondevano innumerabili serpenti. Mi sembrava come se un impeccabile ordine fosse atterito da una forza misteriosa. La musica degli Argentos conteneva degli elementi mistici e riuscivano a scuotere facilmente un punto di tangenza tra ragione e passione. Sentivo attraverso la loro musica il calore della terra argentina che esaltava direttamente la vita. Erano semplicemente le manifestazioni della loro forma di essere. La musica degli Argentos era come un turbine alla massima potenza del ritmo latino. Creava una raffica di vento sulla terra arida che quando si trasformava in una tromba d’aria portava via tutto buttando ogni cosa giù per terra. Mi piaceva il dinamismo del gruppo. Mi dava la forza di combattere la mia debolezza interiore.
    Tutti gli artisti che avevo conosciuto finora cercavano di realizzare qualcosa fuori dalla portata umana  e non si lasciavano distrarre da niente. L'incontro con opere d'arte nate da una pura sensibilità mi aiutava ad aggiustare la distorsione dentro di me. Il più grande errore che abbia mai commesso era stato di essermi lasciata ingannare. Il quadro dipinto con colori falsi si meriterebbe la vera luce? Guardandomi nello specchio il mio volto sfocato mi domandavo se fossi stata in grado di aprirmi nuovi orizzonti nella vita.
    Senza che me ne accorgessi, l'unica cosa sulla quale mi riuscisse di affidarmi era la semplice immagine di foglia che spontaneamente si spingeva verso l'alto con tutte le forze. Quell'immagine così coraggiosa si potrebbe erigere come un simbolo di p
erfetta armonia. È come se gli alberi conoscano la dimensione del loro proprio destino: non crescerebbero né più né meno di quanto già definito. Una foglia che nasca da quell'albero è piena di volontà. Una tale forza vitale di una tale impeccabile volontà certamente verrebbe a creare un mondo meraviglioso, persino nell'atto della sua distruzione. Tutto immutabilmente è ancora qui presente. Persino dopo migliaia di anni. Sentivo che tutto sarebbe andato per il meglio se fossi stata a conoscenza di questo fatto.

    Poco dopo il mio rientro a Buenos Aires, andai con gli amici in un ristorante indiano. Ci incontravamo una volta al mese in qualche ristorante etnico. Indossavo la croce con la pietra di rodocrosite. Quella sera Roberto, un mio amico fisico, era appena tornato dall’osservatorio di raggi cosmici Pierre Auger di Malargüe. Ci raccontò come era andato il suo viaggio. Aveva volato da Buenos Aires fino a Mendoza e da lì aveva viaggiato in autobus per altre sei ore fino all’osservatorio. Partecipavano alle ricerche trecento sessanta scienziati da sedici diversi paesi. Mi incuriosiva molto ciò che raccontava Roberto:
    “Migliaia di raggi cosmici di bassa intensità cadono dappertutto. Anche ora, il nostro corpo li sta subendo!”
    Particelle di grande potenzialità cadono con la frequenza di una per secolo in un’ estensione di terreno compresa tra uno e due chilometri quadrati. Si tratta quindi di una proporzione minuscola. Per le ricerche che richiedono un tempo così lungo si stanno realizzando rilievi in un terreno con estensione pari a tre mila chilometri quadrati in Malargüe. Ad ogni angolo di strutture triangolari con lato di un chilometro e mezzo è disposto un serbatoio di plastica. Ce ne sono mille seicento in totale. I raggi caduti lì dentro si trasformano in elettricità. I ricercatori stanno cercando di scoprire come e da dove provengano i raggi.
    Roberto mi parlò anche del cielo stellato che aveva visto all’osservatorio. Per la grande quantità di stelle il cielo era chiaro come se fosse giorno e la bellezza di quella notte era indimenticabile. Mi venne voglia di vedere quelle innumerevoli stelle di cui mi parlava Roberto.
    Mentre ascoltavo i commenti di un compagno sulla cucina indiana toccavo con le dita la pietra di rodocrosite incastonata nella mia croce. All’improvviso la pietra si tolse e cadde. Non potevo crederci però qualche giorno prima avevo sognato quell’immagine e pensai se fosse stato un mio errore aver incastonato la pietra alla croce. Mi sembrava che la rodocrosite fosse apparsa nel mio sogno per dirmi al posto di Soledad:
    “Voglio camminare da sola!”
    Se fosse così, avrei condotto Soledad verso una sofferenza maggiore mettendola in croce con la mia stessa mano? Avrei potuto vivere ancora ignorando una parte della mia propria realità? La pietra che era rimasta crocifissa cercò di fuggire nel mio sogno poi alla fine decise di farlo realmente di fronte a Roberto. Secondo la sua analisi probabilmente la pietra era scappata per ritornare da Angela che era la sua padrona originale. Anche gli altri amici erano della stessa opinione. Allora pensai di restituirla ad Angela e lasciai perdere l’idea di ripararla. Non avrei dovuto avere problema a scegliere una nuova pietra da incastonare nella croce. Invece  non volevo assolutamente separarmi da quella pietra e la volevo tenere a portata di mano anche se sotto la forma di crocifisso. Portai la pietra e la croce alla gioielleria per farle aggiustare. Così la rodocrosite non sarebbe più riuscita a tornare da Angela.
    Una notte organizzammo una festa d’addio per il ritiro dal lavoro di Roberto alla quale partecipò anche il direttore dell’osservatorio Pierre Auger. Roberto, il direttore ed io, uscimmo nel giardino per prendere una bibita e osservammo il cielo stellato. Roberto iniziò:
    “Un giorno dovresti andare a Malagüe. Ti aiuterà lui come guida.”
    “I raggi cosmici che cadono sulla terra dallo spazio risvegliano la nostra immaginazione e curiosità. L’unica cosa che ci intesessa a sapere è la relazione tra il movimento e l’esistenza”, disse il direttore.
    Dopo qualche mese ricevetti un mail da Roberto che si era trasferrito e stabilito a Furry Creek in Vancouver.
    “L’autunno di Furry Creek è stato quasi sempre nuvoloso con abbondante pioggia. Quando scende la nebbia non si vede più il mare che si trova qui vicino. Nonostante tutto mi piace la natura di questo posto. Per l’anno prossimo sto organizzando un viaggio all’isola di Pitcairn che è conosciuto per la nave inglese Bounty. Ho sollecitato l’informazione all’ufficio amministrativo della Nuova Zelanda. Mi hanno detto che ci sono pochissimi servizi di comunicazione all’anno per arrivarci. Forse dovrei fermarmi qualche mese nell’isola. Comunque ho chiesto di inserirmi nella lista d’attesa.”
    Dove si trova in realità l’isola di Pitcairn? Aprii una mappa e cercai l’isola.

Iguasù e la Croce - IV

   
    Un giorno andai a El Ateneo, un'antica libreria in un palazzo signorile che dava sulla via Santa Fe. Prima era un teatro e quindi ha una struttura simile a quella di un teatro dell’opera.  Al piano terra erano allineati dei libri che sembravano come spettatori seduti ai loro posti. Sui palchi del primo piano c’erano libri tematici e CD. Sul palcoscenico in fondo alla sala c’era un bar e in un angolo un pianoforte a coda. Quella sera suonava dei pezzi classici di jazz. Mentre cercavo qualche CD di jazz incontrai per caso quel chitarrista che avevo conosciuto al concerto di Recoleta. Decidemmo di prendere un caffé insieme.
    “E’ bello questo posto. Mi dà una strana sensazione come di essere la protagonista di qualche spettacolo di cui gli spettatori sono quei libri. È come se controllassero che stiamo interpretando bene quello che hanno pensato e scritto.”  
     “O forse stanno aspettando che succeda qualcosa di imprevisto!”
    Mi disse lui guardando gli scaffali in sala e continuò teatralmente:                                         
    “E la nostra coscienza volerebbe in tutte le direzioni per sfuggire dai preconcetti  se non la musica.”
    Stranamente mi ricordai in quel momento di una persona che incontrai in Italia. Era il  proprietario di una piccola libreria ad Osimo. Mentre stavo parlando con lui che era grande appassionato di jazz, entrò un sacerdote. Gli chiese un'offerta per benedire il negozio. Il proprietario rifiutò educatamente e mi disse che non aveva bisogno di nient'altro che della musica.
    “Parto per Vienna la settimana prossima e ci rimarrò per un po’ di tempo. Tra l’altro, la pietra della croce che porti al collo mi pare il cuore di Gesù.”
    Terminata l'esecuzione di pianoforte, cominciò a sentirsi la musica di bandoneon. Il suono di quel strumento, triste come se fosse un pianto o una voce tremolante, pian piano riempiva la sala. Esprimeva un forte attaccamento alla vita. Sentii sollievo attraverso quel suono e solo in quel momento riuscii a salutare mio padre che se ne andò.
    Alla fine capì quello che voleva dirmi mio padre. “Insegui la tua felicità, non confonderla con quella degli altri. Concentrati e lasciati portare verso la direzione giusta .” L'altro mio orologio aveva già iniziato a muoversi. Avevo preferito partire invece di rimanere ferma durante quella solitudine.
    Durante gli anni universitari passai un momento difficile. Sentivo il mio cuore freddo e non avevo nessuna voglia di riscaldarlo. Mio padre, vedendomi così abbattuta, mi suggerì di andare a studiare all’estero. Non avevo una visione chiara e precisa di ciò che volevo fare nella mia vita, ma piano piano iniziai a riemergere dalla situazione. L’idea di andare in Francia a studiare mi diede più forza. Scelsi l’università di Digione, città principale della regione Bourgogne; dopo sei mesi decisi di lasciarla e trasferirmi a Nizza. In Bourgogne non avevo trovato l’azzuro profondo del mar Mediterraneo né il sole come, invece, avevo trovato a Nizza, la quale mi affascinò sin da quando la visitai la prima volta. Sentivo la necessità di quel tipo di natura.
    Tramite la segretaria dell’università trovai un alloggio in via Berlioz. La proprietaria era una signora e viveva da sola. Era una persona colta, dinamica e ricca d’esperienze della vita. Ogni tanto andava in montagna con degli amici. Mi chiedeva spesso se volessi uscire con lei a fare le gite in montagna o passeggiate per lungomare. Una notte di estate mentre passeggiavamo insiseme sulla spiaggia, le dissi;   
     “Non so cosa fare in futuro..non so che dovrei fare.”
    E lei mi rispose;                                          
    “Devi ascoltare la voce del tuo cuore. E’ tutto lì. Per esempio, se tu volessi nuotare adesso...”                                                                                                  
    Poi si diresse verso l’acqua, si tolse i sandali e si tuffò direttamente senza spogliarsi. Invece io non avevo coraggio di farlo e mi domandai se un giorno sarei stata capace di pensare come lei. Non volevo accettare le prospettive per il futuro che mi proponevano gli altri però non avevo neanche abbastanza fiducia in me stessa per prendere le decisioni da sola. La signora invece, sempre decisa, sapeva dire chiaramente le parole giuste al momento giusto e senza pensarci due volte rispondeva di no quando le cose non erano di suo gradimento. Osservando i suoi comportamenti quotidiani imparai quanto è importante e bello vivere come lei, rimanendo sempre fedele a se stessa. Questa sua capacità sarà sicuramente dovuta alle sue esperienze di vita, però pensai che non tutte le persone, anche se avessero vissuto nello stesso modo, sarebbero riuscite a ottenere gli stessi risultati.
    Andavamo spesso a Saint Paul de Vence e Antibes per vedere esposizioni di quadri e uscivamo anche per ascoltare musica. Mentre lei passava le sue vacanze nella sua casa in Normandia rimanevo da sola, però uscivo ugualmente per fare passeggiate. Mi piaceva salire sulla collina di Cimiez e visitare il museo di Matisse. Dalle sue finestre si vedeva il mare. Tornando verso la città mi fermavo un attimo davanti al museo del messaggio biblico di Chagall. In quel tempo ascoltavo spesso la musica di Debussy che mi riportava alla mente il paesaggio della Costa Azzura. I suoi suoni sembravano gli ultimi tocchi delicati di un pittore alla sua tela. La luce e l’ombra, l’acqua ed il vento, fiori ed il frondoso verde; tutte le cose si fondevano sulla sua tela con armonia.


09 dicembre 2010

Iguasù e la Croce - III



    Mentre camminavo per le strade di Parigi sentivo il mio cuore a pezzi. Era come se fosse caduto per terra e non avesse più la forza di rimettersi dalla sofferenza. Cominciai a sentire dentro di me la vera solitudine. Andai a guardare dei quadri nei vari musei; qualsiasi cosa in quel momento mi avrebbe potuto servire d’aiuto. Immaginavo le tele bianche davanti agli occhi dei pittori. Lì, come il principio di una vita, esisteva già potenzialmente tutto ciò che sarebbe potuto svilupparsi con il passare del tempo? Il pittore dispone i colori sulla tavolozza, li sceglie e comincia a dipingere qualcosa. “Chissà se il quadro della mia vita era già stato definito in precedenza da qualcuno..." Ero sempre più convinta di avere in mano la matita e disegnarlo da sola. Gli innumerevoli colori che sovrapponevo sulla mia tela creavano dei cambiamenti di tonalità in ogni momento. Credevo che ci fosse una struttura invisibile originariamente infiltrata nella tela che avrei potuto vedere unicamente dopo una lunga tappa di transizione. Captare il quadro originale non dovrebbe essere impossibile. Ma che cosa mi sarebbe successo se lo avessi scoperto? Camminando per la strada principale di Parigi, sentivo un bruciore nel mio cuore. Neppure tutta la città di Parigi sarebbe riuscita a guarirmene. Le persone che incrociavo, fissando gli occhi sulla mia croce, mi dicevano:
    "Che bella croce che ha!"
    La mattina del giorno della partenza andai a visitare il Centro Pompidou. Dalla stazione dei Giardini delle Tuileries presi la metropolitana, scesi a Chatelet e camminai fino al museo dell'Arte Contemporanea. Salii con la scala mobile fino all'ultimo piano dove si poteva avere un' ampia visione della città. Osservando Parigi dall'alto mi ricordai delle parole scolpite sull’arco del Conservatorio Beniamino Gigli di Recanati; ”vola irreperibile tempo”. Speravo solo di non aver danneggiato quel disegno originale e invisibile ponendoci sopra i colori sbagliati. Nel pomeriggio andai a fare una passeggiata nei giardini delle Tuileries. Mi sedetti su una delle panchine. Mi misi al sole e osservai delle ordinarie scene di vita quotidiana. Quando il sole cominciò a calare tornai all’albergo per prendere la valigia e quindi presi un taxi. Il volo per Buenos Aires partiva alle 23. Sentivo il passo pesante all'idea di tornare in Argentina. Il luogo del destino mi dava immagini strane: chiese erose e dimenticate in mezzo alla terra estera, antichi quadri religiosi che raccontavano lontani ricordi. Dicevo a me stessa di credere che in quella terra esista un poema sinfonico suonato dalla natura.
    Durante il viaggio di ritorno pensavo a ciò che mi raccontava il maestro al bar di fronte alla cattedrale di Notre Dame mentre prendevamo un aperitivo.
    “Quando stai cercando una risposta, aspetta finché non si calmi la tua agitazione.  Quando l’acqua è turbata non si può vedere quello che c’è in fondo. Bisogna aspettare che si depositi l’impurità.”
    Il tempo di attesa mi sembrava una carica di energia che dopo potrebbe emettere un’ intensa luce. Si poteva percepire dei disequilibri dalla città di Buenos Aires che era costruita ad immagine europea sulla natura eccessivamente vasta. L’aria gratificante emessa dalla storia di Parigi non era un dettaglio di Buenos Aires. Però mi piaceva la città come si presentava. Sentivo di essere un po’ sconcertata dalla sua impressione di libertà. I codici per regolare i capricci umani cuciti nelle pieghe del tempo non si scioglierebbero mai. Però avevo una vaga sensazione che la terra argentina contenesse qualcosa di fondamentalmente differente. Le immagini necessarie non mi apparirebbero se non ci dedicassi più tempo. Credevo che il calore della terra argentina un giorno farebbe risuscitare le mie palpitazioni.

Iguasù e la Croce - II


    Due settimane dopo il viaggio ricevetti una brutta notizia. Mio padre doveva farsi operare con urgenza: aveva avuto un'aneurisma. Otto anni fa si era sottoposto ad un’operazione per un bypass dopo di che aveva perso l'uso della parola. Mio padre cominciò a farsi capire in silenzio ma io durante quegli anni non cercai di comprenderlo. Ero egoista e vivevo solo dei miei ragionamenti puerili. Dissero che la probabilità di riuscita sarebbe stato del venti per cento. Mio padre decise di tentare anche se le probabilità di riuscita erano così basse. Volevo solo rivederlo quando era ancora vivo. Presi subito un biglietto e mi precipitai a casa. 
    Tornai alla casa paterna. Mi portarono nel posto dove mio padre aveva avuto un'emottisi. Lì era appeso un acquerello. Qualche giorno prima dell'accaduto di mio padre vidi, da qualche parte in Buenos Aires, un quadro  con lo stesso disegno. In quel momento non mi ero resa conto che avessimo lo stesso quadro a casa. Chissà se mio padre avesse voluto dirmi qualcosa nonostante la sua voce non riuscisse ad arrivare fino dove mi trovavo. Uscii da casa e camminai intorno alla casa ricordandomi dei giorni della mia infanzia.  Allora mi sembrò di sentire una voce di qualcuno mentre mi appoggiava una mano sulla spalla:
    "Puoi tornare quando vuoi.."
    Ebbi la certezza di aver sempre ricevuto un grande amore dalla mia terra natale, benché stessi a 20,000 chilometri di distanza. L'unica cosa che avrei dovuto fare era tenerlo nel mio cuore per trovare l'energia per andare avanti.
    Mio padre entrò in coma. Andavo a visitare ogni giorno la camera di cura intensiva in cui era ricoverato. Gli avevo appoggiato accanto al guanciale la croce di pietra rosa e gli sussurravo all'orecchio della mia vita negli ultimi anni. Per fortuna la sua situazione era stabile e pregavo per il suo pronto recupero. Il giorno del mio rientro in Argentina era vicino.
    Il volo di ritorno passava per Parigi. Quella volta per via delle condizioni di mio padre, il percorso mi sembrava molto più lungo del solito. Decisi di fermarmi tre giorni a metà strada, ma non avrei mai immaginato di poter incontrare il mio maestro di pianoforte che era lì per incidere della musica di Bach. Lo chiamai e ci demmo appuntamento davanti alla cattedrale di Notre Dame. Presi il metrò dal Parco di Tuillerie. A maggio a Parigi le giornate sono molto lunghe. Alle otto di sera il cielo era ancora chiaro e c'erano ancora tante persone di fronte alla cattedrale. Non riuscivo ancora a credere che a breve sarebbe arrivato il mio maestro. Era già da un anno e mezzo che non lo vedevo. Mentre l'aspettavo mi ricordavo delle lezioni di pianoforte a Recanati. Era lui che mi fece aprire realmente gli occhi alla bellezza della musica. Arrivò con un po' di ritardo. Attraversammo la Senna, entrammo nel primo vicolo sulla riva sinistra e camminammo verso la Cité. Ci fermammo sul ponte della Senna che rifletteva la luce del tramonto. 
    "Mi sembra che fossero state ieri le lezioni di pianoforte. Ti ricordi delle parole che abbiamo letto insieme sull'arco?", mi chiese il maestro. 
                                 
    "Come no! .... Vola irreperibile tempo... il tempo vola e non torna più. Penso che sono venuta in Italia per trovare il tempo che non riuscivo mai a trovare prima.”
    “Che cosa farai in Argentina?”
    "Non lo so ancora...”
    Al di là della cattedrale cominciarono ad apparire una per una le stelle. Ritornammo a quel vicolo per prendere le crepe e brindammo per il nostro incontro a Parigi. Dopo averlo salutato pensai all'apparizione casuale del maestro a metà camino dal Giappone a Buenos Aires. Mi sembrava che fosse venuto a incoraggiarmi, anche se in realtà non era così, per il fatto di mio padre. Il mio maestro mi aveva aiutato molto anche prima. Se lui fosse stato tanta acqua io sarei stata una foglia che fluttuava lì sopra. Però cominciai anche a sentirmi come se fossi una piccola foglia appena nata da un albero.

Iguasù e la Croce - I

    Venne a trovarmi una mia amica da Tokyo durante la settimana santa e decidemmo di andare a visitare le cascate di Iguasú. Era venerdì santo. Si poteva immaginare la quantità di gente che  sarebbe venuta a visitarle in quel giorno. Chiesi ad un’agenzia di organizzarci un viaggio da due giorni per non perdere tempo inutilmente; normalmente ci vogliono tre giorni per poter vedere bene tutte le cascate. All’aeroporto di Iguasú ci aspettava una guida, un brasiliano che sapeva perfettamente il giapponese e ci avrebbe accompagnate tutto il tempo per fare un giro alle cascate. Non mi meravigliava il fatto di incontrare una persona che parlava bene la nostra lingua, però mi sorprese quando mi disse che aveva studiato quattro anni come borsista all’università gemellata con la mia.
    Il primo giorno che era venerdì santo, visitammo la parte brasiliana. La nostra guida ci disse che in quel giorno il numero di visitatori era dieci volte più alto di un giorno normale. In ogni caso non era possibile organizzare altrimenti il viaggio ed eravamo costrette a trovarci in mezzo alla folla. La parola "venerdì santo" mi faceva ricordare di quel sogno che feci in Italia prima di venire in Argentina: si trattava di una crocifissione di un religioso che mi sembrava fosse una scena iniziale del film "La Missione" che era stato girato in una delle cascate di Iguasú. Ne parlai alla nostra guida e lui mi rispose che si eseguivano realmente quelle torture in quella zona.
    Dopo aver pranzato in un caffè brasiliano, visitammo la cascata "Garganta del Diablo" (Gola del Diavolo). Guardandola dall'alto, dissi scherzosamente alla mia amica:
    "Qui ci confesseremo!" e lei mi rispose;
    "Non devi fare patti col diavolo!"
    Il percorso era lungo e faticoso soppratutto perché faceva molto caldo e venivamo bagnati da schizzi d'acqua. Il giorno seguente visitammo la parte argentina. La mattina presto attraversammo una giungla con la jeep per scendere fino al bacino delle cascate. La foresta era tranquilla, si sentivano soltanto i cinguettii o il rumore degli animali. Però tutta quell'armonia si perdeva a causa dell'invasione della jeep. Rinunciai ad ascoltare i suoni della giungla e mi lasciai trasportare a destinazione. Quando arrivammo quasi al livello dell'acqua, scendemmo dalla jeep e camminammo un pezzetto fino ad una riva dove erano ancorati dei canotti. Da lì ci portarono in canotto vicino alle cascate. Infilammo tutte le cose in una busta di plastica; eravamo pronte ad essere bagnate completamente. Ci avvicinammo alla Garganta del Diablo. Il frastuono della cascata e la quantità di acqua che scendeva mi spaventavano. Una volta fatto il giro delle cascate, il canotto cominciò a dirigersi proprio sotto il flusso d'acqua. Ormai era impossibile proteggerci dall'acqua; eravamo totalmente inzuppati. Dissi alla mia amica:
    "Non ho avuto nemmeno un attimo di tempo per pensare se volevo essere battezzata.."
    "Se potessi risorgere ne sarei felice!",  mi rispose lei.
    Dopo quella breve avventura ricominciammo a fare il giro attorno alle cascate. Mi ispirava ammirazione quella creazione divina, perfetta e magnifica scultura del tempo. Era il mondo dei misteri che diventava reale e che noi non potevamo misurare con il nostro metro. Lì si percepiva una sinfonia solenne, suonata per mezzo del tempo, la musica più comprensibile per noi esseri umani. Camminai ascoltando la musica delle cascate e nel frattempo pensavo a quella scena del sogno de La Missione.


Il Sole del Sud America - VI

    Qualche settimana dopo l’eclisse andai a trovare Nora a casa sua. Uscimmo fuori sul balcone e guardammo la luna che emanava la luce fredda e chiara. Rifletteva su un lago che esisteva dentro di me che era apparentemente tranquillo e limpido. Sembrava fosse una goccia d’acqua che vi era caduta. Il lago cominciò a incresparsi e agitarsi. Il fango sedimentato iniziò a mischiarsi con l’acqua limpida e ad intorbidarsi rapidamente. Dentro quell’acqua cominciai a diventare cieca. L’acqua che depositava quel fango, non la necessitavo. Avrei solo bisogno di quella di un limpido corso che fluiva incessabilmente.  Mi domandavo se un giorno sarei riuscita a discendere quella corrente senza chiedere aiuto.
    Guardando la luna ascoltavamo il CD che mi aveva regalato Ranko per il mio compleanno :  ”Lagrimas Negras” di Bebo Valdes & El Cigala. Dal balcone non si vedevano le vie intorno alla piazza. Erano nascoste completamente dagli alberi. Il paesaggio perfetto non esiste da nessuna parte. Per vivere in questa città confusionaria e mal curata dovevo creare dentro di me qualcosa di positivo. Provavo ripulsione per il fatto di ottenere la sicurezza al costo di imporre dei limiti. In piazza si vedevano dei ragazzi che raccoglievano qualcosa da mangiare nei rifiuti, mentre El Cigala cantava “Corazon Loco”.
  
    La mattina seguente uscì un articolo sul giornale sul festival di jazz di Lapataia in Uruguay. In programma era inserito il nome di Bebo Valdés, pianista afrocubano, all’ultimo giorno del festival. Decisi di fare un salto a Lapataia con Ranko per ascoltare l’esecuzione di Bebo. Noi solevamo uscire per ascoltare jazz a Buenos Aires. Una notte andammo ad un jazz club di Chacarita che si trovava in una zona sconosciuta per me. A Buenos Aires l’atmosfera europea si concentra solo in una parte della città e allontanandosi man mano dal centro l’aspetto della città cambia. In Chacarita si sentiva di essere sotto il cielo latino americano. Quella notte suonava Conrad Herwig, trombonista americano. Il locale dava sulla via principale però il suo dintorno era piuttosto insipido. Entrammo dentro e ci sedemmo al tavolo in prima fila. La sala era profonda verso l’interno con il soffito alto e le pareti erano fatte di vecchi mattoni. Il palcoscenico era situato in mezzo all’ambiente. Arrivavano una dietro l’altra delle persone che sembravano proprio intenditori di jazz. Erano le 22 passate quando cominciarono a suonare. Era un quartetto formato da organo Hammond, basso elettrico, batteria e trombone. Seguire seriamente l’esecuzione di più di due ore mi richiedeva un alto grado di concentrazione. Il movimento della musica di Herwig era delicato e sottile. Dopo il concerto ci sentivamo ricaricate al massimo e parlavamo del viaggio a Lapataia.
    Il festival si svolgeva in una fattoria alla periferia di Punta del Este, però era lontano da luoghi abitati. Era impossibile raggiungerlo senza macchina. Fummo costrette a prenotare un albergo vicino e andarci con taxi. Ranko aveva deciso di viaggiare via terra invece io con l’aereo. Partii dall’aeroporto Jorge Newbery di Buenos Aires e in quaranta minuti arrivai a Punta del Este. Osservavo dall’alto il suolo vergine verde, le onde alte dell’Oceano Atlantico e il colore del mare completamente diverso da quello del Mediterraneo. L’albergo che avevamo scelto era situato alla riva del lago Sauce ed era circondato da un bosco. Aspettavo Ranko che doveva arrivare più tardi. Nel tardo pomeriggio venne a prenderci un taxi per accompagnarci alla fattoria dove si svolgeva il festival. In una pianura estesa pascolavano liberamente gli animali. Non avevo mai pensato che avrei potuto ascoltare jazz con le mucche sotto il cielo stellato. Alle otto di sera aprirono il recinto e ci fecero entrare come se fossimo pecore. Lo spettacolo iniziò con una vocalista italiana e poi suonò il quintetto di Lewis Nash. L’energia di Nash avrebbe potuto fare spuntare erba dalle crepe dell'asfalto. Il primo giorno di festival finì con Bebo Valdés, Paquito D’Rivera e Andy Narell. La musica accompagnata dallo steelpan mi faceva ricordare il mare trasparente dei Caraibi e i forti raggi del sole.

    Bebo cominciò a raccontare appassionatamente la sua vita. Il suo suono intimo e intuitivo penetrava nel buio in mezzo alla natura. Ascoltare jazz sotto il cielo magnifico fu tutto un piacere. Nel secondo giorno di festival suonarono Alon Yavnai, i grandi interpreti di swing The Heath Brothers e il gruppo dell'affascinante e carismatico Roy Hargrove.
    Durante l'ultimo giorno in Uruguay facemmo un giro turistico a Punta del Este. Passeggiammo per il lungomare e ci fermammo sulla spiaggia La Mansa per pranzare in un ristorante. Era una giornata calda però piacevole con una leggera brezza marina. Nel pomeriggio ci accompagnarono ognuno al suo luogo di partenza: Ranko alla stazione degli autobus ed io all’aeroporto.
    Grazie al jazz si incominciò ad aprire un nuovo orizzonte in me. Sentivo dentro di me come il nascere di un caos provocato dal suono di una musica che aveva una natura completamente diversa da quella classica. Ne ricevevo però inconsciamente la sua forza che piano piano si transformava in un processo spirituale di incontro con me stessa. La musica, che era nata come liberazione dello spirito, non sarebbe potuta esistere se non si fosse continuamente trasformata. Desideravo conoscere fin dove sarebbe riuscita a portarmi questa musica.
    Ascoltando jazz mi venivano alla mente immagini di rami che si distendevano liberamente nello spazio e delle foglie che da questi rami crescevano. Le foglie erano simbolo di armonia. Un albero formava una figura che simboleggiava la fedeltà al messaggio dell’eternità. Tutto ciò che nasceva in armonia in questa immagine mi sembrava meritasse gratitudine. Desideravo che il mio luogo di origine si trovasse lì dove si manteneva l’armonia, lontano dal concetto di resistenza e di rinuncia. Dovevo cominciare a comprendere i limiti della libertà che la natura mi avrebbe insegnato.