09 dicembre 2010

Il Sole del Sud America - VI

    Qualche settimana dopo l’eclisse andai a trovare Nora a casa sua. Uscimmo fuori sul balcone e guardammo la luna che emanava la luce fredda e chiara. Rifletteva su un lago che esisteva dentro di me che era apparentemente tranquillo e limpido. Sembrava fosse una goccia d’acqua che vi era caduta. Il lago cominciò a incresparsi e agitarsi. Il fango sedimentato iniziò a mischiarsi con l’acqua limpida e ad intorbidarsi rapidamente. Dentro quell’acqua cominciai a diventare cieca. L’acqua che depositava quel fango, non la necessitavo. Avrei solo bisogno di quella di un limpido corso che fluiva incessabilmente.  Mi domandavo se un giorno sarei riuscita a discendere quella corrente senza chiedere aiuto.
    Guardando la luna ascoltavamo il CD che mi aveva regalato Ranko per il mio compleanno :  ”Lagrimas Negras” di Bebo Valdes & El Cigala. Dal balcone non si vedevano le vie intorno alla piazza. Erano nascoste completamente dagli alberi. Il paesaggio perfetto non esiste da nessuna parte. Per vivere in questa città confusionaria e mal curata dovevo creare dentro di me qualcosa di positivo. Provavo ripulsione per il fatto di ottenere la sicurezza al costo di imporre dei limiti. In piazza si vedevano dei ragazzi che raccoglievano qualcosa da mangiare nei rifiuti, mentre El Cigala cantava “Corazon Loco”.
  
    La mattina seguente uscì un articolo sul giornale sul festival di jazz di Lapataia in Uruguay. In programma era inserito il nome di Bebo Valdés, pianista afrocubano, all’ultimo giorno del festival. Decisi di fare un salto a Lapataia con Ranko per ascoltare l’esecuzione di Bebo. Noi solevamo uscire per ascoltare jazz a Buenos Aires. Una notte andammo ad un jazz club di Chacarita che si trovava in una zona sconosciuta per me. A Buenos Aires l’atmosfera europea si concentra solo in una parte della città e allontanandosi man mano dal centro l’aspetto della città cambia. In Chacarita si sentiva di essere sotto il cielo latino americano. Quella notte suonava Conrad Herwig, trombonista americano. Il locale dava sulla via principale però il suo dintorno era piuttosto insipido. Entrammo dentro e ci sedemmo al tavolo in prima fila. La sala era profonda verso l’interno con il soffito alto e le pareti erano fatte di vecchi mattoni. Il palcoscenico era situato in mezzo all’ambiente. Arrivavano una dietro l’altra delle persone che sembravano proprio intenditori di jazz. Erano le 22 passate quando cominciarono a suonare. Era un quartetto formato da organo Hammond, basso elettrico, batteria e trombone. Seguire seriamente l’esecuzione di più di due ore mi richiedeva un alto grado di concentrazione. Il movimento della musica di Herwig era delicato e sottile. Dopo il concerto ci sentivamo ricaricate al massimo e parlavamo del viaggio a Lapataia.
    Il festival si svolgeva in una fattoria alla periferia di Punta del Este, però era lontano da luoghi abitati. Era impossibile raggiungerlo senza macchina. Fummo costrette a prenotare un albergo vicino e andarci con taxi. Ranko aveva deciso di viaggiare via terra invece io con l’aereo. Partii dall’aeroporto Jorge Newbery di Buenos Aires e in quaranta minuti arrivai a Punta del Este. Osservavo dall’alto il suolo vergine verde, le onde alte dell’Oceano Atlantico e il colore del mare completamente diverso da quello del Mediterraneo. L’albergo che avevamo scelto era situato alla riva del lago Sauce ed era circondato da un bosco. Aspettavo Ranko che doveva arrivare più tardi. Nel tardo pomeriggio venne a prenderci un taxi per accompagnarci alla fattoria dove si svolgeva il festival. In una pianura estesa pascolavano liberamente gli animali. Non avevo mai pensato che avrei potuto ascoltare jazz con le mucche sotto il cielo stellato. Alle otto di sera aprirono il recinto e ci fecero entrare come se fossimo pecore. Lo spettacolo iniziò con una vocalista italiana e poi suonò il quintetto di Lewis Nash. L’energia di Nash avrebbe potuto fare spuntare erba dalle crepe dell'asfalto. Il primo giorno di festival finì con Bebo Valdés, Paquito D’Rivera e Andy Narell. La musica accompagnata dallo steelpan mi faceva ricordare il mare trasparente dei Caraibi e i forti raggi del sole.

    Bebo cominciò a raccontare appassionatamente la sua vita. Il suo suono intimo e intuitivo penetrava nel buio in mezzo alla natura. Ascoltare jazz sotto il cielo magnifico fu tutto un piacere. Nel secondo giorno di festival suonarono Alon Yavnai, i grandi interpreti di swing The Heath Brothers e il gruppo dell'affascinante e carismatico Roy Hargrove.
    Durante l'ultimo giorno in Uruguay facemmo un giro turistico a Punta del Este. Passeggiammo per il lungomare e ci fermammo sulla spiaggia La Mansa per pranzare in un ristorante. Era una giornata calda però piacevole con una leggera brezza marina. Nel pomeriggio ci accompagnarono ognuno al suo luogo di partenza: Ranko alla stazione degli autobus ed io all’aeroporto.
    Grazie al jazz si incominciò ad aprire un nuovo orizzonte in me. Sentivo dentro di me come il nascere di un caos provocato dal suono di una musica che aveva una natura completamente diversa da quella classica. Ne ricevevo però inconsciamente la sua forza che piano piano si transformava in un processo spirituale di incontro con me stessa. La musica, che era nata come liberazione dello spirito, non sarebbe potuta esistere se non si fosse continuamente trasformata. Desideravo conoscere fin dove sarebbe riuscita a portarmi questa musica.
    Ascoltando jazz mi venivano alla mente immagini di rami che si distendevano liberamente nello spazio e delle foglie che da questi rami crescevano. Le foglie erano simbolo di armonia. Un albero formava una figura che simboleggiava la fedeltà al messaggio dell’eternità. Tutto ciò che nasceva in armonia in questa immagine mi sembrava meritasse gratitudine. Desideravo che il mio luogo di origine si trovasse lì dove si manteneva l’armonia, lontano dal concetto di resistenza e di rinuncia. Dovevo cominciare a comprendere i limiti della libertà che la natura mi avrebbe insegnato.