09 dicembre 2010

Iguasù e la Croce - III



    Mentre camminavo per le strade di Parigi sentivo il mio cuore a pezzi. Era come se fosse caduto per terra e non avesse più la forza di rimettersi dalla sofferenza. Cominciai a sentire dentro di me la vera solitudine. Andai a guardare dei quadri nei vari musei; qualsiasi cosa in quel momento mi avrebbe potuto servire d’aiuto. Immaginavo le tele bianche davanti agli occhi dei pittori. Lì, come il principio di una vita, esisteva già potenzialmente tutto ciò che sarebbe potuto svilupparsi con il passare del tempo? Il pittore dispone i colori sulla tavolozza, li sceglie e comincia a dipingere qualcosa. “Chissà se il quadro della mia vita era già stato definito in precedenza da qualcuno..." Ero sempre più convinta di avere in mano la matita e disegnarlo da sola. Gli innumerevoli colori che sovrapponevo sulla mia tela creavano dei cambiamenti di tonalità in ogni momento. Credevo che ci fosse una struttura invisibile originariamente infiltrata nella tela che avrei potuto vedere unicamente dopo una lunga tappa di transizione. Captare il quadro originale non dovrebbe essere impossibile. Ma che cosa mi sarebbe successo se lo avessi scoperto? Camminando per la strada principale di Parigi, sentivo un bruciore nel mio cuore. Neppure tutta la città di Parigi sarebbe riuscita a guarirmene. Le persone che incrociavo, fissando gli occhi sulla mia croce, mi dicevano:
    "Che bella croce che ha!"
    La mattina del giorno della partenza andai a visitare il Centro Pompidou. Dalla stazione dei Giardini delle Tuileries presi la metropolitana, scesi a Chatelet e camminai fino al museo dell'Arte Contemporanea. Salii con la scala mobile fino all'ultimo piano dove si poteva avere un' ampia visione della città. Osservando Parigi dall'alto mi ricordai delle parole scolpite sull’arco del Conservatorio Beniamino Gigli di Recanati; ”vola irreperibile tempo”. Speravo solo di non aver danneggiato quel disegno originale e invisibile ponendoci sopra i colori sbagliati. Nel pomeriggio andai a fare una passeggiata nei giardini delle Tuileries. Mi sedetti su una delle panchine. Mi misi al sole e osservai delle ordinarie scene di vita quotidiana. Quando il sole cominciò a calare tornai all’albergo per prendere la valigia e quindi presi un taxi. Il volo per Buenos Aires partiva alle 23. Sentivo il passo pesante all'idea di tornare in Argentina. Il luogo del destino mi dava immagini strane: chiese erose e dimenticate in mezzo alla terra estera, antichi quadri religiosi che raccontavano lontani ricordi. Dicevo a me stessa di credere che in quella terra esista un poema sinfonico suonato dalla natura.
    Durante il viaggio di ritorno pensavo a ciò che mi raccontava il maestro al bar di fronte alla cattedrale di Notre Dame mentre prendevamo un aperitivo.
    “Quando stai cercando una risposta, aspetta finché non si calmi la tua agitazione.  Quando l’acqua è turbata non si può vedere quello che c’è in fondo. Bisogna aspettare che si depositi l’impurità.”
    Il tempo di attesa mi sembrava una carica di energia che dopo potrebbe emettere un’ intensa luce. Si poteva percepire dei disequilibri dalla città di Buenos Aires che era costruita ad immagine europea sulla natura eccessivamente vasta. L’aria gratificante emessa dalla storia di Parigi non era un dettaglio di Buenos Aires. Però mi piaceva la città come si presentava. Sentivo di essere un po’ sconcertata dalla sua impressione di libertà. I codici per regolare i capricci umani cuciti nelle pieghe del tempo non si scioglierebbero mai. Però avevo una vaga sensazione che la terra argentina contenesse qualcosa di fondamentalmente differente. Le immagini necessarie non mi apparirebbero se non ci dedicassi più tempo. Credevo che il calore della terra argentina un giorno farebbe risuscitare le mie palpitazioni.